Giovanni Marsicano: il sistema endocannabinoide ed il recettore CB1
Giovanni Marsicano è il Vicedirettore del Neurocentro Magendie a Bordeaux, centro dedicato alle neuroscienze nel quale si occupa di cannabinoidi, endocannabinoidi e soprattutto del recettore CB1 che studia dal 1997.
Come definirebbe il sistema endocannabinoide e perché è importante studiarlo?
Il sistema endocannabinoide è presente in tutto il corpo e per quanto riguarda il cervello è il sistema di modulazione più importante. Parto dal presupposto che ancora non sappiamo quasi niente di come funzioni il nostro cervello, ma una cosa l’abbiamo capita e cioè che il principio fondamentale del suo funzionamento risiede nel freno e nell’accelerazione, dunque nell’eccitazione e nell’inibizione. Questo equilibrio fra più e meno è quello che ci permette di fare tutto. Abbiamo infatti due grandi sistemi, il primo quello del glutammato che si occupa di eccitazione ed il secondo, il gaba, che si occupa di inibizione. Detto questo, il sistema endocannabinoide si occupa di modulare dicendo ai neuroni che si eccitano di non eccitarsi troppo e a quelli che si inibiscono di non inibirsi troppo. Quando si verifica un eccesso il sistema endocannabinoide si occupa di bilanciarlo.
Esistono grandi differenze fra il sistema endocannabinoide interno a tutti gli esseri umani e l’effetto dei cannabinoidi presenti in natura?
Bisogna fare una grossa distinzione: il sistema endocannabinoide è un sistema specializzato nel tempo e nello spazio. Solo nel momento e nel punto in cui c’è bisogno di questo tipo di controllo il sistema interviene nei circuiti celebrali. Quando invece si somministrano i cannabinoidi, in teoria, tutti i recettori sono attivati allo stesso momento e per un tempo che dipende soltanto da quanto dura l’effetto della droga. Esiste quindi una differenza nel meccanismo di azione. Nel nostro gruppo lavoriamo su entrambi e quindi su a che cosa serve il sistema endocannabinoide a livello fisiologico, in una condizione, quindi, di normalità e poi quali possono essere i meccanismi di azione dei cannabinoidi.
Il suo gruppo di ricerca si chiama «Endocannabinoidi e Neuroadattamento» Cosa significa?
Che ci occupiamo dell’omeostasi celebrale e quindi di fisiologia e di come un organo o un individuo si mantengono in vita e funzionano nella maniera più ottimale. Ci occupiamo di come il sistema endocannabinoide contribuisce a quest’equilibrio, ma anche di come le alterazioni di questo equilibrio possano alterare il sistema endocannabinoide o, al contrario, di come le alterazioni del sistema endocannabinoide, per esempio con la somministrazione di un agonista come il THC (agonista in quanto attiva il CB1) possono alterare questo equilibrio.
Come si studia un composto cannabinoide?
Negli anni sessanta, prima che venisse scoperto il recettore CB1, si utilizzava la cosiddetta tetrade degli effetti dei cannabinoidi per capire se un composto fosse effettivamente un cannabinoide. Si era stabilito che iniettando un composto a un topo, quando questo composto provocava catalessia, analgesia, diminuiva la temperatura e la locomozione allora si trattava di un cannabinoide. Quando poi, si è scoperto il recettore si è visto che effettivamente questi quattro effetti sono mediati dal recettore CB1. Alcuni di questi effetti rappresentano esempi di tipico effetto positivo e di tipico effetto negativo: l’analgesia è una delle ragioni per cui la cannabis medica si considera come molto promettente però, allo stesso tempo, la catalessia al contrario è un effetto negativo essendo, per esempio, uno dei motivi dietro ad alcuni incidenti in macchina: i riflessi ci sono, ma i movimenti volontari sono rallentati.
Quindi su che tipo di ricerche vi siete focalizzati?
Ultimamente abbiamo scoperto che il recettore CB1 regola anche l’attività degli organelli all’interno delle cellule, i mitocondri, che sono le centrali energetiche della cellula e che bruciano l’ossigeno ed i nutrimenti per produrre delle molecole che sono utilizzate dalle cellule. Nel cervello la regolazione di quest’attività energetica diventa un modo fondamentale per regolare le funzioni. Ci siamo quindi focalizzati sugli effetti analgesici e catalettici dei cannabinoidi e abbiamo scoperto che avvengono nella stessa zona del cervello. La cosa interessante, però, è che il CB1 è un recettore e quindi, tradizionalmente, si trova sulle membrane delle cellule, in questo caso particolare però abbiamo scoperto che una sottopopolazione di CB1 si trova anche all’interno delle cellule ed esattamente sul mitocondrio. Ci siamo accorti che la catalessia dipende dal recettore sul mitocondrio e che invece l’analgesia dipende dal recettore sulla membrana. Quindi uno potrebbe immaginare di produrre farmaci come il THC, ma con una modifica che non permetta loro di entrare dentro la cellula. Così facendo attiverebbero soltanto il CB1 che sta sulla membrana inducendo l’effetto analgesico senza l’effetto catalessico.
Nel 2014 avete pubblicato uno studio su una molecola che proteggerebbe il cervello dalle intossicazione da cannabis. Di cosa si tratta e che importanza riveste per le possibili applicazioni mediche?
Il collega Pier Vincenzo Piazza, all’epoca direttore di questo Istituto, si era messo in testa che certe molecole che si chiamano neurosteroidi, ormoni prodotti nel cervello scoperti una trentina di anni fa, erano importanti per la dipendenza da sostanze. Così abbiamo preso un gruppo di ratti e ad ognuno abbiamo iniettato tutte le droghe, cocaina, eroina, anfetamine, cannabis etc. etc. Quando poi abbiamo misurato i neurosteroidi ci siamo accorti che tutte le droghe influenzavano leggermente il livello di questi neurosteroidi del 10%, del 50% 100% , ma che il THC li faceva salire del 4000%. La nostra ipotesi all’inizio era che questi neoristeroidi partecipassero alle funzioni del THC, come parte della catena causa effetto, provocata dalla somministrazione di un cannabinoide. I risultati però non corrispondevano sino quando un giorno ci siamo domandati: « Ma se fosse il contrario? Se fossero i neurosteroidi a voler frenare l’azione del THC?» Dati alla mano ed in seguito ad esperimenti specifici abbiamo capito che effettivamente era così. Abbiamo cioè capito che questo neurosteroide specifico, che si chiama pregnenolone, è un formidabile inibitore naturale del recettore CB1. Quando il CB1 è attivato in eccesso interviene la produzione di pregnenolone che inibisce il CB1 soltanto in alcuni effetti che, guarda caso, sono quelli più dannosi dell’intossicazione da THC. Mi riferisco alla catalessi, ma soprattutto il pregnenolone riesce ad inibire l’auto somministrazione compulsiva di cannabinoidi e quindi lo sviluppo di dipendenza. Il problema è che questo neurosteroide non si può usare direttamente, perché essendo un precursore inattivo di altri neurosteroidi, se lo si somministra così com’è rischia di trasformarsi in un altro steroide. Il trucco è stato quello di modificare la molecola nei due punti dove gli enzimi si attaccherebbero per modificarlo.
Che tipo di applicazioni potrebbero avere i vostri studi nel campo della medicina?
In America grazie ad un finanziamento del NIDA [National Institute of Drug Abuse] questi farmaci hanno passato la fase uno di tossicità nell’uomo. Gli studi sugli animali sono stati assolutamente un successo e addirittura non si riesce a trovare la dose tossica. Adesso sono in fase clinica due, fase nella quale il farmaco è dato a gente che fuma regolarmente cannabis e che non riesce a smettere. Per quanto riguarda gli sbocchi medici potrebbe diventare il primo farmaco specifico per dipendenza da cannabis.
L’approccio della medicina contemporanea non rischia di diventare un limite per sfruttare le potenzialità di una pianta che da il suo meglio nell’applicazione terapeutica del suo fitocomplesso?
La scienza moderna ha una caratteristica che rappresenta il suo grande vantaggio, ma anche il suo grande limite. Questa caratteristica è la specializzazione che porta la scienza a capire come le cose funzionino nel dettaglio sempre più piccolo, quindi più ci si addentra nel dettaglio più si dovrà essere specializzati per farlo. Quando però si parla di comportamento animale e di funzionamento celebrale, questa specializzazione rischia di farci perdere la visione d’insieme, quella globale di come il cervello funzioni e cioè di una macchina di scambio, fatta per interagire con altre parti del corpo, con l’esterno del corpo e con altre parti del cervello stesso, scambiando informazioni. Tornando al sistema endocannabinoide, uno dei grossi vantaggi di studiare il recettore CB1 è che ci permette di lavorare sui due piani. Da un lato siamo estremamente specializzati, però dall’altro, lavorando su questa singola proteina che è talmente tanto implicata in funzioni diverse e tocca talmente tanti meccanismi diversi del cervello, alla fine siamo obbligati a mantenere una visione d’insieme. In realtà comunque si tratta di una contraddizione apparente, nel senso che la scienza procede in questo modo: ci sono migliaia e migliaia di ricercatori come me che, come piccole formichine, si occupano della propria piccola ricerca accumulando informazioni. Poi, di tanto in tanto, c’è qualcuno che si prende la briga e tira fuori la sintesi. La sfida dello studio degli effetti della cannabis è esattamente questa. Non si può prescindere dalla specializzazione però allo stesso tempo ci vuole qualcuno che, di tanto in tanto, faccia guardare l’insieme. In questo caso la complessità è talmente elevata che sicuramente la pianta agisce con tante molecole diverse, di alcune non sappiamo proprio quasi niente, ma anche se prendiamo il solo THC, la complessità delle maniere con cui il THC può interagire nel cervello è già sbalorditiva di per sé. Credo nel metodo scientifico, ma questo è basato sul fatto che ogni concetto può essere cambiato da un momento all’altro e quindi credo che quando la scienza si sostituisce alla religione sia un’idiozia. Dire che una cosa è scientificamente provata non vuol dire assolutamente niente se non che in quel momento c’è una teoria e che la maggior parte delle evidenze puntano verso questa e la stessa cosa vale per altri tipi di interpretazioni ed indagini sulla realtà. Finché sono aperte al dubbio ed alla continua revisione tutto va bene.
Scrivi un commento